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Il mio secondo Ironman

Roberta Liguori

Quando ho tagliato quel traguardo ero talmente stremata che ancor prima della gioia ho provato sollievo.

È stata dura, ancora più dura della prima volta. Il temporale che ci ha sorpreso nella parte più difficile del percorso in bicicletta, le lunghe salite, il vento, gli abiti sempre bagnati, il freddo, il piede dolorante, un sacco di cose hanno contribuito a rendere ancora più ardua questa difficile sfida.
Per fortuna non è stato sempre così. La mattina ci ha regalato un’alba straordinaria, un sole rosso fuoco che facendo capolino da un mare piatto e cristallino lanciava i suoi raggi tutt’attorno, a trafiggere le nuvole già cariche di pioggia. Sembrava il ventaglio di un’appassionata ballerina di flamenco pronta a danzare per oltre duemila atleti, e in questo scenario magico il nuoto, finalmente, è stato facile.
Mi sentivo forte, leggera e resistente. In acqua mi muovevo rapida e continuavo a superare persone. Ho percepito improvvisamente tutti i benefici di centinaia di ore di allenamento, di lezioni private, di consigli tecnici dei miei tanti coach e amici che anche stavolta mi hanno aiutato a compiere questa impresa, e sono andata veloce come mai nella vita. E quasi senza stancarmi. È proprio vero che i frutti del lavoro duro alla fine arrivano sempre, ammetto che nel nuoto iniziavo quasi a dubitarne. Ma mi sbagliavo.

Durante questa frazione ho imparato che la modestia non paga sempre. Convinta di terminare 3,8 km di nuoto in un’ora e venti circa, mi sono posizionata nello scaglione di partenza 1.10-1.20, ma già all’ingresso in acqua mi sono resa conto di aver commesso un errore. Troppe persone più lente di me hanno rallentato la mia andatura, in alcuni casi ho dovuto aggirare gruppetti compatti di atleti che facevano muro davanti a me, e che non riuscivo proprio a far spostare. Ho preso qualche botta, come al solito in quella tonnara. Qualche calcio e qualche sberla soprattutto vicino alle boe, una così forte che mi ha addirittura tolto gli occhialini. Per fortuna avevo due cuffie e l’elastico degli occhiali ben fissato in mezzo, così non li ho persi in mare. Ho imparato da Phelps, evviva il “modeling” (roba di PNL, per chi si sta chiedendo cosa sia).
Alzo la testa e dico “ma cazzarola!” e l’enorme tipo barbuto autore della tranvata risponde gentilissimo “fuck off!!!” Evviva lo spirito sportivo.
Vuoi la guerra? E io ti svernicio.
Aumento la frequenza delle bracciate, allungo bene le braccia per prendere più acqua e lo lascio indietro di parecchio. Tiè, cafone.

Esco dall’acqua un po’ spaesata. Guardo il tempo, è ottimo per me soprattutto considerando i rallentamenti, l’uscita all’australiana e i metri fatti in più visto che in ben tre occasioni stavo perdendo la traiettoria corretta, tanto per cambiare. Le gambe fanno fatica a iniziare a correre, e la fatica rimane anche all’inizio della frazione in bici.
Non vado come al solito. Gambe vuote, stanchezza diffusa, non riesco a spingere neanche in piano, dove di solito vado bene. Che caspita succede? Mangio, bevo, aspetto che gli zuccheri mi ridiano energia e intanto pedalo sempre più decisa.
I primi cento chilometri dovevano essere di pianura, ma sull’isola di pianura ce n’è ben poca. Vedo da subito che non riesco a tenere la media che speravo e mi prende un po’ di sconforto. Provo a spingere di più, non è una decisione saggia. Sfinirei le gambe, ho altri centocinquanta chilometri di bici e quarantadue di corsa. Rallento di nuovo.

Alla fine l’Ironman è tutta questione di decisioni, come nella vita.
Devi decidere a che andatura andare per arrivare in fondo preservando le energie, devi decidere cosa e quando mangiare per dare benzina al corpo, devi decidere quando bere per mantenerti idratato. E se sbagli paghi le conseguenze, che in questa gara spesso significano il ritiro.
Ho detto ritiro? Opzione non contemplata dalla mia mente, quindi mi concentro, addento un altro morso di barretta e vado avanti.

Ed ecco che arriva il tanto temuto tratto di montagna, le mie “amate” salite. Il panorama straordinario mitiga un po’ lo sforzo, peccato non si veda bene a causa della foschia. E per rendere le cose ancora più interessanti, arriva anche il temporale. “Potrebbe anche piovere” disse Igor a un giovane Gene Wilder in Frankenstein Junior, e in effetti così è stato. Una fantozziana nuvola carica di pioggia con tuoni, lampi, fulmini e saette mi ha accompagnato per tutto il tratto in ascesa. Abiti completamente fradici, le scarpette letteralmente piene d’acqua, un freddo pinguino. Come se già non bastasse la fatica porca.
Per evitare di lasciarmi sopraffare dallo sconforto elenco i lati positivi della situazione: innanzitutto non fa caldo così non corro il rischio di disidratazione. Poi, per bere basta aprire la bocca, non devo neanche fare lo sforzo di avvicinarmi alla borraccia. Terzo… boh il terzo non c’è, ma alla fine questo è un Ironman e si suppone che sia dura, poche storie e vai avanti, lamentona.

La cosa bella delle salite è che precedono le discese. E quando finalmente arrivo al tratto in discesa smette anche la pioggia. Ecco, questa sì che è fortuna. Mi godo la velocità, mi diverto come una pazza a lanciarmi giù per i tornanti e mi costringo a ignorare il freddo, sono ormai congelata. Gli ultimi 30 chilometri in queste condizioni sono interminabili, ma ancora una volta, poche storie. Non sono in un centro benessere, sto facendo un Ironman e il titolo di Ironman va guadagnato. Ogni volta.
La zona cambio appare come un miraggio. Scendo dalla bici e i piedi fanno un male cane, sono congelati davvero. Ci impiego cinque minuti a riscaldarmi e a riattivare la circolazione, ora devo correre una maratona, i piedi mi servono.
Quando inizio a correre la sensazione è tutto sommato buona. Mi metto al passo che so di poter tenere a questo punto, 5 minuti e 30 secondi per fare un chilometro. I primi 10 km non mi fermo neanche ai ristori, ho la mia bottiglietta d’acqua e sali, va tutto bene. Le gambe dolgono, è normale. Rinizia a piovere ma ora cambia poco. Ora basta stringere i denti per qualche ora e mi vado a conquistare il traguardo. Caspita, è quasi facile.
Si, come no.
Il muro di sconforto attende in agguato proprio dietro l’angolo. La mente si rabbuia. Inizio a rallentare. Non ne ho davvero più. Pensieri negativi. E se ‘sto giro davvero non ce la faccio? Benzina finita, vado avanti con la testa e col cuore. Che a loro le gambe obbediscono sempre.

Nessuna tempesta è violenta tanto da fermarci,
nessun vento è forte tanto da trattenerci,
nessuna onda è alta tanto da contrastarci.
Noi siamo più forti, noi siamo Ironman, e adesso è il nostro momento.

La corsa sono 4 giri e mezzo e a ogni giro ti danno un bracciale di colore diverso, per indicare ai giudici ma anche a te stesso a che punto sei della gara. Blu, giallo, verde, rosso. Desidero quel bracciale rosso più di un tennis di diamanti di Tiffany.
Mio marito, i miei amici e mia sorella sono un’oasi di sollievo, ogni volta che sento la loro voce guadagno qualche metro di lucidità. Anche passare di fianco al traguardo mi da forza, e quando lo intravedo dico “guarda che tra poco ti prendo!”.
Il trucco è pensare che anche questa passerà presto, è più resisti mantenendo la velocità più alta che puoi, prima finisce l’agonia. Inutile tergiversare, nell’Ironman e nella vita.
Finalmente infilo l’agognato braccialettino rosso completamente in trance, mi svegliano le grida di mia sorella che mi ricorda che questo è l’ultimo giro. L’ultimo giro. Che non ho mai capito perché è moooooolto più lungo degli altri. Altra pioggia, buio, sconforto. Male in ogni centimetro del corpo, mi dolgono anche le orecchie e non capisco perché. Incrocio lo sguardo preoccupatissimo di mio marito, per chi assiste alla gara è dura quasi quanto per noi. Ma è quasi finita.

Butto un’occhiata all’orologio, caspita niente male per queste condizioni. Ce la faccio in tredici ore. Tra pochi secondi sarò di nuovo Ironman, questa parte voglio proprio godermela.
Giro per imboccare la passerella che mi porta al traguardo, e accade la solita magia. La stanchezza sparisce, il dolore pure, il sollievo prevale e alla fine rimane solo la gioia per aver superato questa straordinaria sfida.
E contemporaneamente nasce anche l’irrequieta voglia di andarmi a conquistare la prossima.

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